I PRIMI « PARTIGIANI DELLA STORIA »: GLI SCITI

Alle frontiere settentrionali del grande impero dei Medi e dei Persiani, nelle sconfinate pianure della attuale Russia meridionale e dell’Asia centrale viveva un popolo di allevatori di cavalli, di cacciatori e, quando se ne presentava la possibilità, anche di temporanei agricoltori. Appartenevano all’ultima ondata dell’invasione ariana, ma il loro modo di vivere e anche certe loro caratteristiche fisiche li facevano assomigliare ai Tartari. Portavano pantaloni e un alto e ruvido berretto ; le loro armi erano l’arco, la daga e l’ascia da battaglia. Vivevano in capanne fatte di giunchi o addirittura in tende montate sempre sui carri. Erano gente semplice e onesta (il grande poeta greco Eschilo li definisce « popolo di mangiatori di cacio di latte di cavalla che vive secondo leggi giuste ») anche se, come vedremo, un po’ suscettibile e incline alle scorrerie. Erano insomma in un certo senso gli antenati dei più “moderni” cosacchi. Il loro nome Sciti indica indubbiamente la loro origine ariana e anche la loro specialità : è infatti molto simile al norvegese skita al tedesco schutzen, all’inglese shott, tutti termini che indicano il “tiratore scelto”. Ma i greci li chiamavano più semplicemente “ippomolghi” (“mungitori di cavalle”) o “galattofagi” (“mangiatori di latte”) o addirittura “abii” che, etimologicamente, significa “gente che si astiene dalla violenza”. Come si vede gli Sciti godevano di un’ottima stampa (questo ultimo termine era stato addirittura coniato da Omero), ma un bel giorno avvenne qualcosa che dimostrò inequivocabilmente che se gli Sciti erano “alieni dalla violenza” avevano d’altra parte un carattere tutt’altro che facile.

 

Ai confini dell’impero dei Medi

Intorno al 610 avanti Cristo una grossa tribù di Sciti, cacciata dai suoi territori a seguito della scorreria di qualche tribù asiatica, si presentò ai confini dell’impero dei Medi chiedendo, con modi molto urbani e supplichevoli, ospitalità. Ciassare, re dei Medi che aveva sentito parlare delle eccezionali qualità di arcieri e di cacciatori degli Sciti, fu ben lieto di accogliere i profughi e di assumerli con la qualifica di “cacciatori per le mense del grande re”. All’inizio le cose andarono benissimo, ma poi, un brutto giorno, i “cacciatori del re” si presentarono a mani vuote proprio alla vigilia di un grande banchetto che doveva consacrare tutta una serie di utili alleanze. L’occasione era solenne e quindi Ciassare fu doppiamente adirato dal fatto che i suoi cacciatori non fossero riusciti a procurare dei bocconi prelibati per i suoi ospiti. In realtà il povero Ciassare, nonostante la rabbia, si comportò nel modo più moderato (non dimentichiamo che si trattava di un satrapo orientale dotato di poteri di vita e di morte su tutti): si accontentò di fare una scenata ai cacciatori Sciti e di rimproverarli aspramente imponendo loro di tornare immediatamente nei boschi e di portargli a tutti i costi qualcosa di buono da mangiare. Ma evidentemente gli Sciti non erano affatto abituati a farsi rimproverare (quando le loro mogli si lamentavano di qualcosa, le lega-vano al timone del carro e le sferzavano come cavalle), né sopportavano i rabuffi di nessun potente. Così, per quanto “alieni dalla violenza”, anziché recarsi nei boschi a cacciare catturarono alcuni giovinetti dell’aristocrazia locale che ronzavano sempre intorno al loro accampamento per imparare a usare egregiamente l’arco, li sgozzarono e inviarono le loro carni al potente re dei Medi con il seguente messaggio : « Ecco la carne più prelibata che siamo riusciti a trovare ». Subito dopo naturalmente levarono le tende e si rifugiarono dal re di Sardi che sapevano acerrimo nemico di Ciassare. Il rifiuto di consegnare gli assassini servì da pretesto a una lunga e sanguinosa guerra tra Medi e Lidi che si svolse con alterne vicende e aprì le porte alla dominazione persiana. Per quel che riguarda gli Sciti, c’è da dire che da quel momento non vennero più chiamati “abii”, cioè “gente che si astiene dalla violenza”, ma si meritarono il soprannome di “humawarga” cioè “gente da cui è meglio stare alla larga”. Un nome che era anche un avvertimento. Ma di questo avvertimento non tenne nessun conto per sua disgrazia il grande “re dei re”, Dario, che alla testa di un popolo di pastori, i Persiani, era riuscito a consolidare le conquiste di Ciro il Grande, e a unificare tutto il mondo conosciuto nel più grande impero schiavistico della storia. Un impero che andava dall’India all’Arabia, dalla Tracia all’Egitto, che comprendeva il bacino del Mediterraneo e di cui perfino le città greche, tanto orgogliose della loro indipendenza, erano tributarie anche se non schiave perché rappresentavano il “polmone commerciale” dell’impero e i commercianti, si sa, per poter essere tali, devono godere di una certa libertà di movimento.

 

Un popolo da soggiogare

 

« Dimmi o supremo sapiente aveva chiesto un giorno Dario al Japo dei sacerdoti (che erano anche gli scienziati e i banchieri dell’epoca) — che cosa potrebbe minacciare ancora il mio impero, quali popoli rimangono da soggiogare, quali ricchezze da conquistare perché il mio potere sia per sempre simile a quello degli dei? ».

Dario, come tutti i potenti di sempre non esclusi i moderni di-rettori d’azienda — era un nevrotico: temeva che il suo potere fosse minacciato da avvenimenti imprevisti che bisognava quindi a ogni costo prevenire o di essere circondato da collaboratori pigri e poco efficienti. Perciò il capo dei sacerdoti, che lo conosceva bene e che oltre a tutto aveva tutto l’interesse a tenerlo lontano dalla capitale (quando il “re dei re” era assente, l’amministrazione passava nelle mani dei sacerdoti), dopo avergli tenuto una dotta dissertazione tendente a dimostrare che al di là delle “colonne d’Ercole”, del grande fiume indiano Indo e dell’Egitto si estendeva soltanto il grande anello inaccessibile e deserto del fiume “Oceano” (per cui era inutile spingersi a Occidente), gli fece presente che l’unico popolo che rimaneva ancora da soggiogare era quello degli Sciti. « Gli Sciti compiono continue scorrerie in Tracia e in Getia (l’attuale regione dei Balcani) mettendo a repentaglio il tuo prestigio. In più, una volta soggiogati, renderebbero invincibile la cavalleria imperiale con i loro stupendi cavalli montati da arcieri infallibili. Corre poi voce che i loro capi vengano sepolti in ricchi tumuli imbottiti d’oro e che questo metallo di cui gli Sciti primitivi non conoscono l’enorme potere, sia assai abbondante su certi monti che sorgono nel loro territorio… ».

Per Dario che possedeva l’anima di un conquistatore e che una volta conquistato il mondo, era costretto a passare il suo tempo stupidamente nelle sue sontuose regge, annoiato dalle beghe delle numerose mogli, delle concubine, degli eunuchi e dei favoriti, queste parole pronunciate dal gran sacerdote furono un vero e proprio balsamo. Nel 508 avanti Cristo, dopo aver inviato gli ordini opportuni ai suoi vassalli greci, eccellenti marinai, e ai suoi satrapi imperiali, eccellenti e “persuasivi” reclutatori di uomini, Dario utilizzando 700 navi greche attraversò l’Ellesponto (l’attuale Bosforo) su un grande ponte di barche, alla testa di 800 mila uomini appartenenti a tutte le nazioni dell’impero. Dopo aver compiuto un grande e feroce rastrellamento in Tracia e nei Balcani, attraversò, sempre utilizzando il « ponte di barche » allestito dai greci, il largo corso del Danubio affacciandosi così sul territorio degli Sciti. Incomincia così un’avventura che, con 2500 anni di anticipo, ricorda in modo impressionante (la storia spesso si ripete! ) quella di Carlo XII di Svezia o quella di Napoleone: gli Sciti bruciano i loro villaggi, avvelenano i pozzi d’acqua, ma si ritirano senza accettare una grande battaglia campale — in cui avrebbero certamente la peggio — accontentandosi di molestare e di innervosire l’esercito persiano sui fianchi e generalmente di notte quando gli invasori sono sfiniti dalle lunghe marce.

Al sorgere di ogni nuovo giorno i Persiani riprendono il loro cammino verso il Nord, ma fatti pochi chilometri incontrano, infisse su dei lunghi pali piantati nella steppa, le teste dei loro commilitoni sorpresi e catturati nella notte precedente.

Le notti dei Persiani diventano notti d’incubo, le vettovaglie incominciano a mancare, l’acqua scarseggia, poi, quando ormai gli invasori sono arrivati in vista del fiume Don, incomincia a cadere la « pioggia bianca », cioè la neve, che i popoli del Medio Oriente non conoscono affatto e che viene interpretata come un infausto « prodigio ».

Dario è perplesso, non sa più quello che bisogna fare per avere ragione di un nemico invisibile che colpisce, ma rifiuta la battaglia aperta. Poi finalmente, un giorno, quando la disperazione che si è impadronita dell’esercito si è ormai comunicata anche a lui…

Allarme all’alba

.All’alba gli avamposti persiani vengono messi in allarme dallo scalpitare di un cavallo che risuona sinistramente suscitando cupi echi nella terra indurita dal gelo.

Ma questa volta non si tratta di un solitario esploratore scita che viene a spiare le mosse dell’invasore, né di un giovanotto ambizioso che vuole conquistarsi la sua bella testa nemica per pavoneggiarsi con lo scalpo davanti alle ragazze della tribù…

Si tratta nientemeno che di un araldo che reca un messaggio e un importante dono per il ’’re dei re”…

Dario, ancora insonnolito, lo riceve subito.

« Sono venuto a portarti, o grande sovrano, il dono degli Sciti. Un dono che è anche un messaggio perché noi Sciti non abbiamo scribi e sacerdoti che sappiano tradurre il loro pensiero con segni incomprensibili tracciati su fogli di pergamena. Per noi parlano le cose e anche tu cerca di capire il linguaggio delle cose! ».

Detto questo l’araldo gettò ai piedi di Dario un involto, poi spronò il cavallo e sparì nella steppa.

Dario si fece portare l’involto che, una volta aperto, rivelò il suo singolare contenuto: dentro c’erano un uccello, un topo, una rana e cinque frecce.

« Vittoria, vittoria! — urlò Dario non appena vide quello che gli era stato portato — gli Sciti finalmente hanno deciso di sottomettersi: mi hanno inviato i doni della loro terra desolata abitata soltanto da topi, rane e uccelli e hanno deposto ai miei piedi le frecce, simbolo della loro abilità e del loro potere! ».

La tensione, alimentata per tanti mesi da una guerra così strana, era improvvisamente caduta e l’esercito, dopo tante sofferenze, si accingeva già a intonare il peana della vittoria e ad avanzare per catturare e incatenare i vinti.

Sul più bello però, dalla cerchia dei consiglieri più intimi del “re dei re” uscì un uomo, un certo Gabria (Erodoto, il primo storico dell’umanità, ce ne ha tramandato il nome), il quale conosceva assai bene i costumi e la lingua degli Sciti tanto che proprio per questo era stato aggregato alla spedizione.

« O potente sovrano — esordì Gabria — maledico gli dei per avermi assegnato il triste compito di disilluderti. Puoi anche farmi uccidere,ma il mio compito è di informarti e dirti la verità: il dono che gli Sciti ti hanno fatto non è un dono di sottomissione, ma purtroppo significa ben altro ».

« E che cosa dunque significa? » chiese accigliato Dario

« L’uccello, il topo, la rana e le frecce, che tu hci interpretato come simboli di dedizione dell’aria, della terra, dell’acqua e delle armi di guerra — spiegò Gabria — contengono invece nel “linguaggio delle cose” tipico degli Sciti il seguente messaggio: ’ Salvo che voi, o Persiani, non vi cangiate in uccelli per volare in cielo, in topi per nascondervi nella

terra o in rane per rifugiarvi nei pantani, non potrete mai scappare dalla nostra terra, ma morrete trafitti dai nostri dardi!’ ».

La ritirata del « re dei re »

Dario non andò in collera, nonostante la profonda delusione provata. Forse anche perché aveva visto comparire su tutte le alture che incorniciavano il suo accampamento, torme di cavalieri dall’aspetto bellicoso,

Attese che scendessero le prime ombre della sera poi, come narra Erodoto, « avendo compreso che era tempo finalmente di servirsi dimezzi di salvezza più sicuri del suo genio militare, abbandonò i suoi malati, coi fuochi del campo accesi e i ciuchi attaccati per far credere al nemico che egli stava ancora lì, e si ritirò nella notte ». o

Ebbe così inizio la prima ”ritirata di Russia” della storia. Gli Sciti inseguivano Dario da vicino, marciando su strade parallele, senza dargli tregua né di giorno né di notte, applicando in pieno la tattica della guerriglia partigiana.

Una colonna scita riuscì addirittura a raggiungere il Danubio prima di Dario. Furono intavolate trattative con i Greci che custodivano il ponte di barche e che furono esortati ad approfittare dell’occasione per scuotere il giogo dei Persiani e a ribellarsi a Dario, precipitando così la sua fine.

Ma i Greci rimasero sordi a questi argomenti: avevano troppa paura del ‘re dei re” e poi avevano ottenuto da lui troppi privilegi commerciali… Così l’occasione per abbattere definitivamente l’impero persiano

sfumò per il momento, cosa questa di cui i Greci negli anni seguenti ebbero amaramente a pentirsi.

Dario comunque, pur essendo ormai ridotto molto male, raggiunse con quello che rimaneva del suo potente esercito e dopo aver dovuto superare gravissime difficoltà, il ponte della salvezza.

L’esercito giunse in piena notte sulla riva sinistra del Danubio e qui visse le sue ultime ore di terrore. Perché i Greci, temendo un assalto degli Sciti, avevano ritirato le navi più vicine alla riva e i Persiani, non vedendo più il ponte, erano convinti che gli infidi Greci avessero disertato o fatto lega con gli Sciti.

La situazione fu risolta da un soldato egiziano dalla voce particolarmente robusta: egli si mise a gridare fino a che fu udito dal capitano dei Greci che provvide subito a completare il ponte permettendo così a Dario e al suo malconcio esercito di porsi in salvo.

Dario ritornò alquanto scornato nella sua capitale, ma si consolò ben presto ordinando che sul suo gigantesco monumento funebre, previdentemente già costruito, sotto l’elenco dei popoli assoggettati e vinti che concludeva il panegirico già inciso su pietra in suo onore, venissero aggiunti « gli Sciti oltre il mare ». Dal che si deduce che la falsificazione della storia non è una caratteristica tipicamente moderna.

L’avventura di Dario nel paese degli Sciti costò tuttavia assai più cara del previsto all’impero persiano universale: come accadde più tardi a Carlo XII dopo Poltava, a Napoleone dopo la Beresina e a Hitler dopo Stalingrado, essa dimostrò come « l’invasore che stava per conquistare il mondo » fosse tutt’altro che invincibile, e i popoli assoggettati ne trassero un decisivo insegnamento: nove anni dopo la batosta subita in Scizia, l’impero persiano fu scosso dalla rivolta delle colonie greche in

Asia Minore. Se i selvaggi cavalieri sciti erano riusciti ad aver ragione degli eserciti di schiavi di Dario, perché lo stesso non avrebbe potuto riuscire agli opliti e alle falangi greche, bene organizzate, composte da uomini liberi e forti di una flotta senza il cui appoggio i Persiani sarebbero stati impotenti in mare, cioè nell’intero Mediterraneo?

La rivolta delle colonie greche dell’Asia Minore che, essendo circondate, quasi sommerse dall’immenso Impero, non poteva che finire tragicamente, era fatalmente destinata a coinvolgere anche la madre-patria, la Grecia che malvolentieri sopportava il predominio persiano.


tratto da 
“Come l’uomo si conquista la libertà” di  M. Baranoviĉ  – Edizioni Giorni Vie Nuove (1974).