Intervista a Luca Rossi, segretario dell’Associazione Culturale “Russia-Emilia Romagna”.

Negli ultimi mesi diversi avvenimenti a carattere geopolitico hanno interessato quello che viene definito lo spazio post sovietico, chiamando in causa direttamente o indirettamente la Federazione Russa, così come la stessa Unione Europea e gli Stati Uniti.
Per fare luce su quanto sta accadendo, abbiamo perciò posto alcune domande al Segretario dell’Associazione culturale Russia Emilia Romagna, Luca Rossi.

1) Il conflitto in Nagorno Karabakh tra armeni e azeri ha dato adito a diverse interpretazioni e ridisegnato alcuni schieramenti, tuttavia è indubbio che l’intervento prima diplomatico poi di interposizione fisica con i caschi blu operato da Mosca sia stato decisivo per porre fine alla guerra nel Caucaso. Come giudica quanto successo e in particolare il comportamento della Russia in tale vicenda?

La Russia ha dimostrato nuovamente di operare nello scenario del Caucaso da potenza equilibratrice riassumendo il ruolo di Centro politico, economico e metafisico che le apparteneva sin dai tempi degli Zar. Ufficialmente non ha appoggiato nessuno dei contendenti, ma in sostanza ha ribadito la collocazione dell’autonomo Nagorno-Karabakh nel contesto statuale della Repubblica Azera (così come voluto da Stalin nel 1926), pur mantenendo aperto e presidiato dalle truppe di Peacekeeping, il corridoio geografico con l’Armenia. Così come lo Stato armeno dovrà garantire il collegamento tra l’enclave di Nakhchivan ed il territorio azero. L’avventurismo militare del governo “armeno”, o meglio, della tecnocrazia filo-occidentale insediatasi ad Erevan (“Rivoluzione di Velluto” del 2018), è stato sonoramente sconfitto. Il tentativo di riportare il conflitto nel cuore del Caucaso meridionale è tra gli obiettivi primari perseguiti dal Dipartimento di Stato degli USA e dai propri alleati della NATO. Nel caso del “Nagorno-Karabakh” si è tentato di generare l’ennesimo focolaio di guerra, cercando invano di coinvolgere le due potenze regionali primarie (Turchia e Russia) in un conflitto più esteso. La maturità e le capacità diplomatiche dei Governi di Mosca, Ankara e Teheran, hanno letteralmente sminato il terreno da una possibile catastrofe militare e geopolitica che avrebbe nuovamente riportato il Caucaso ai primi anni ’90.
Oserei affermare che si tratta dell’ennesima vittoria dell’Eurasia sul campo euro-atlantico e ciò costituirà in futuro un avanzamento sul piano dell’integrazione politica, economica e militare del continente eurasiatico. Il processo innescato dall’intervento russo potrebbe portare alla caduta dell’attuale Governo di Nikol Pashinyan, ponendo fine all’anomalia di un esecutivo occidentalista di un Paese aderente al CSTO (Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva) e di conseguenza la scarcerazione e la riabilitazione dei politici e dei militari filorussi incarcerati; all’inaugurazione di una nuova fase nei rapporti azero-armeni che conduca i due Stati a convivere pacificamente nel quadro dell’alleanza militare e dell’Unione Economica Eurasiatica; alla creazione di un nuovo format d’intervento congiunto russo-turco per far fronte alle criticità nell’area del Caucaso, simile a quello utilizzato in Siria e Libia ed infine ad un ulteriore allontanamento di Ankara dalla NATO.

2) Nonostante la vittoria elettorale di Alexander Lukashenko e il riconoscimento del Cremlino, in Bielorussia l’opposizione, forte del sostegno che arriva da Bruxelles e da Washington, continua a manifestare contro l’attuale Presidente. Il cambiamento costituzionale recentemente annunciato servirà a normalizzare la situazione del Paese?

La nuova Costituzione dovrebbe sancire la transizione politica verso una nuova forma di governo che potrebbe limitare il raggio d’azione e i poteri del Presidente. Un maquillage politico necessario per assorbire l’urto delle tensioni generate dalle manifestazioni violente e ridurre il consenso popolare all’opposizione supportata da Stati ostili (Polonia, Lituania e Ucraina) che operano in quanto alleati NATO e UE. Questa soluzione probabilmente è stata concertata con l’alleato russo, con l’obiettivo di garantire la permanenza della Bielorussia nel CSTO e accelerare il processo di integrazione dei due Stati, bloccando una riproposizione dello scenario ucraino – che condurrebbe inevitabilmente ad un intervento militare di Mosca. Una scelta altrettanto condivisa con il partner cinese, fondamentale per la garanzia degli investimenti e delle infrastrutture strategiche lungo il corridoio settentrionale della Nuova Via della Seta. Oltre all’elevato interscambio commerciale, fondamentale nei rapporti con Pechino è il “Great Stone Industrial Park”, un progetto industriale dai costi elevati edificato sulla linea ferroviaria che collega la Cina all’Europa.
Per la Federazione Russa, dal punto di vista militare e geostrategico, la Bielorussia è fondamentale in quanto “primo fronte” in caso di aggressione della NATO, e territorio avanzato per intervenire sull’enclave russa di Kaliningrad.
La gestione pacifica della transizione politica atta a preservare l’indipendenza della Russia Bianca dagli aggressori occidentali, polverizzerà l’idea perversa del “tiranno da detronizzare” istigata e stimolata dagli organismi di guerra psicologica delle intelligence straniere. I tentativi di destabilizzare la società bielorussa subiranno un progressivo arresto sino a cessare definitivamente entro la fine del 2021.

3) La vittoria alle elezioni presidenziali in Moldavia di Maia Sandu ha riacceso la miccia dei vari “conflitti congelati” nella regione, dal Donbass – dove le autorità ucraine non hanno mai rispettato gli accordi di Minsk – alla Transnistria, dove si chiede alle truppe russe di lasciare il Paese. Quali sono i possibili scenari, anche alla luce della vittoria elettorale di Joe Biden negli Stati Uniti (è nota la sua vicinanza alle autorità di Kiev)?

La vittoria dell’ex Consigliere del Direttore Esecutivo presso la Banca Mondiale a Washington, Maia Sandu, è sicuramente un ulteriore campanello d’allarme per Mosca ed in particolare per la Transnistria. La Repubblica di Pridnestrovie, così come l’Abkhazia, l’Ossezia del Sud, la Repubblica Popolare di Donetsk e Lugansk, rappresenta sostanzialmente un cuneo politico-militare, un irrinunciabile avamposto in territorio nemico che non consente alle repubbliche ex-sovietiche entrate nell’orbita di Washington un ingresso definitivo nei dispositivi di sicurezza occidentali. In questo caso la Moldavia, la quale ha unilateralmente sciolto i suoi legami con l’URSS nel 1991, ha tentato successivamente di annettere la Repubblica Moldava di Pridnestrovie, storicamente parte integrante dell’Ucraina e aggregata alla Moldavia sovietica solo dal secondo dopoguerra. Un conflitto cessato nel 1992 e che vede la presenza del Gruppo Operativo di Forze Russe in Moldavia (GOFR) quale forza di interposizione lungo il fiume Dniester. Non è un caso che la sig.ra Sandu appena eletta, abbia chiesto il ritiro dell’ex Armata Rossa dai territori della Transnistria ricevendo un immediato diniego dal Cremlino. E’ evidente che l’attuale Presidente della Moldavia parli per bocca del Dipartimento di Stato statunitense, galvanizzato dalla vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali di Novembre. Biden, ex Vicepresidente dell’amministrazione Obama, ha infatti curato la transizione ucraina da Yanukovic a Poroshenko, quindi può essere considerato una sorta di “testa d’ariete” nell’area, il che non lascia presagire nulla di buono, sia sul fronte del Dniestr, sia su quello del Donbass. Una riacutizzazione dell’offensiva militare contro il territorio della LNR e della DNR è già in atto, segno che probabilmente siamo alla vigilia di una serie di importanti operazioni. Se osservate la Transnistria e il Donbass sulla cartina, vedrete che l’area geografica che separa queste due entità corrisponde alla cosiddetta “Novorossjia”, ossia al progetto di riunificazione di tutti i territori russofoni e russi per cultura e religione, che va da Mariupol a Odessa, e che taglierebbe fuori l’Ucraina dall’accesso al mare. Se dovesse concretizzarsi, tale progetto sarebbe un colpo mortale a Kiev ed ai padrini della NATO.
L’uscita di scena di Dodon, quasi del tutto contemporanea a quella di Trump, ed il tentativo di forzare lo scioglimento delle camere per liquidare la maggioranza filo-russa, risulta necessario per il completamento della svolta filo-atlantica della Moldavia. D’altronde si tratterebbe di una delle promesse elettorali della Sandu.
Insomma, vi sono tutte le premesse politiche e militari affinché la nuova guerra fredda si riscaldi notevolmente, e gli USA appaiono intenzionati a procedere verso lo scontro totale.